Investire in azioni per il lungo periodo
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Investire in azioni per il lungo periodo

Recensione

Edward Lawrence Smith, Common Stocks as Long Term Investments, New York, 1928

Nella lettera agli azionisti di Berkshire Hathaway sul bilancio 2019, Warren Buffett cita questo lavoro di E. Smith, pubblicato nel 1928, e la favorevole recensione che ne fece (nientemeno che) Lord Keynes, il quale, come è noto, oltre ad essere stato un grande economista, fu anche un investitore di notevole successo. Keynes sottolineava, di quel libro, un elemento che lo aveva colpito, ossia il potere del reinvestimento degli utili nelle imprese, che costituisce lo strumento per aumentare, grazie al meccanismo dell’interesse composto, il valore delle azioni.

Mi sono incuriosito e, al costo di pochi dollari, mi sono procurato il libro, che è stato ristampato nel 2012 dalla Martino Publishing del Connecticut (USA).

Il libro inizia con una premessa: negli anni ’20 del secolo scorso, le azioni erano considerate uno strumento di speculazione, non adatte ad investimenti di lungo periodo, mentre le obbligazioni erano considerate come il miglior investimento a lungo termine, privo di rischi speculativi. A distanza di un secolo, non è difficile trovare risparmiatori che la pensano ancora così!

L’autore inizia quindi ad esaminare quali sarebbero stati i risultati di due investimenti da 10.000 dollari ciascuno, uno in obbligazioni di qualità, e l’altro in un portafoglio diversificato di 10 azioni, lungo differenti periodi, aventi tutti una durata di circa 20 anni, aventi caratteristiche diverse (aprendo un filone di ricerca, sulle performance dell’investimento azionario nel lungo periodo, che costituirà poi il cuore degli studi di Jeremy Siegel, autore ai nostri giorni di diverse edizioni di “Stocks for the Long Run”).

Si noti che già nel 1928 era chiara l’importanza della diversificazione: ci dice l’autore che il principio basilare di investimento che è stato applicato nei test ai fini della selezione delle azioni è stato quello della diversificazione, senza la quale non ha senso investire in Borsa: «Without diversification, the purchase of common stocks cannot be considered».

Il primo periodo esaminato riguarda gli anni dal 1901 al 1922, caratterizzati dalla Prima guerra mondiale, da un dollaro che ha sistematicamente perso valore in termini di potere di acquisto e da una espansione della produzione industriale. Utilizzando tre diversi criteri di selezione del portafoglio azionario, a fronte di una cedola obbligazionaria del 4%, le azioni hanno generato un surplus di reddito di 16 mila, di 8 mila e di 21 mila dollari, ossia una media di 15 mila dollari, determinando un capitale finale pari a 2,5 volte quello iniziale, in termini nominali. In termini reali, invece, chi aveva investito in obbligazioni ha visto il suo capitale pesantemente falcidiato, mentre le azioni hanno consentito di mantenere nel tempo il potere di acquisto dell’investimento, oltre a generare un rendimento positivo.

Il secondo periodo esaminato è il ventennio compreso tra il 1880 e il 1899, caratterizzato, al contrario del precedente periodo esaminato, da un apprezzamento del dollaro in termini reali. L’investimento azionario ha consentito di ottenere un rendimento superiore di 12 mila dollari rispetto a quello obbligazionario, che ha offerto un rendimento del 5,5%.

Il terzo periodo è compreso tra il 1866 e il 1885, che ha visto diversi episodi di crisi e turbolenza. Innanzitutto, va ricordato il “panico di Borsa” del 1873, scatenatosi a seguito di diversi fallimenti bancari, e che ha determinato la chiusura della Borsa di New York per 10 giorni e la sospensione dei prelevamenti agli sportelli delle banche per ben 40 giorni. Va ricordato poi che nel 1881 fu assassinato il Presidente Garfield, e la Borsa non la prese bene. Infine, nel 1884 fu organizzato il salvataggio di ben sei banche di New York, tecnicamente insolventi, generando un “quasi panico”. In un ventennio così sfortunato, si può dire che il rendimento delle azioni e quello delle obbligazioni fu equivalente, visto che a seconda della selezione del portafoglio azionario, in un caso le prime resero più delle altre per mille dollari e nel secondo caso avvenne l’inverso, sempre per mille dollari.

Il quarto periodo è compreso tra il 1892 e il 1911. Nel 1892 la Borsa era ai massimi, e crollò nell’anno seguente, nel “panico di Borsa” del 1893, il quale fu seguito da un periodo di depressione economica, da una catena di fallimenti aziendali e da un incremento sensibile del tasso di disoccupazione; ciononostante, anche in questo caso le azioni hanno battuto le obbligazioni con quasi 12 mila dollari di extra-rendimento.

Il quinto periodo, di soli 17 anni, inizia nel 1906 per finire nel 1922, e conferma, ancora una volta, il maggior rendimento delle azioni sulle obbligazioni, e lo stesso risultato è fornito da un ulteriore test, riguardante la performance di un portafoglio composto da sole azioni di società ferroviarie, tra il 1901 e il 1922.

Le conclusioni cui giunge Smith sono interessanti, soprattutto se consideriamo che sono state formulate negli anni ’20 del secolo scorso: il valore delle azioni cresce grazie ad una parte degli utili aziendali che sono reinvestiti nell’attività imprenditoriale i quali, aggiungendosi al capitale già impiegato, determinano un effetto similare alla capitalizzazione composta. Pertanto, se l’investitore non ha comprato al picco del mercato, i periodi di tempo in cui il valore di mercato del suo portafoglio (ben diversificato) è inferiore al costo sono assai limitati, e anche nello sfortunato caso di acquisto sui massimi, il recupero del valore investito è solo questione di tempo.

Nel periodo compreso tra il 1837 e il 1922, assumendo che il portafoglio azionario fosse stato acquistato al prezzo medio di ciascuno degli anni considerati, la probabilità che il suo valore fosse superiore o quantomeno eguale al costo è del 63% dopo un anno, dell’78% dopo due anni, del 90% dopo 4 anni. Rimangono solo 6 casi su 100 in cui l’investitore ha dovuto attendere dai 6 ai 15 anni per rivedere l’importo del capitale originariamente investito.

Da ultimo, l’autore evidenzia come reinvestendo una parte dei dividendi incassati anno dopo anno, quantomeno la parte di essi che eccede il rendimento obbligazionario, ed impiegandola nell’acquisto di nuove azioni, l’entità dei rendimenti, grazie all’effetto della capitalizzazione composta, cresce in modo assai significativo, aumentando così il gap positivo tra i risultati dell’investimento azionario e quelli dell’investimento obbligazionario.

In questo momento di turbolenze dei mercati azionari, gli insegnamenti della storia e il mantenere una prospettiva di lungo periodo ci sono di grande aiuto, per non perdere lucidità e consentirci di tener la barra dritta nel mezzo della tempesta economica che il COVID-19 ci ha regalato come effetto collaterale.

Studio Marchese

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